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Facebook: lo spot – The Things That Connect Us

FACEBOOK – THE THINGS THAT CONNECT US

Ammetto di aver visto lo spot di Facebook soltanto stamani!

Non essendo una fan sfegatata del social network (pur avendo un profilo), non sono particolarmente interessata agli strumenti che mette a disposizione, né al numero di utenti che raggiunge, né quindi allo spot che celebra il miliardesimo iscritto. Ma stamani, arrivata sulla pagina di accredito di Facebook, mi sono ritrovata il link al video in bella mostra, con una impossibile sedia rossa sospesa a mezz’aria nella foresta.
La curiosità è femmina e da un po’ di tempo le dinamiche di marketing sui social network mi intrigano…. ovviamente ho cliccato per avviare il video e sono stata l’utente medio!
Ho avuto la faccia a punto interrogativo per tutto il minuto e mezzo, chiaramente non perché avessi dubbi sull’oggetto dello spot ma perché il primo pensiero è stata una sensazione di déjà vu che non mi ha mollato un istante. Indipendentemente dallo spot in sé per sé, di cui parlerò più avanti, Facebook non ha fatto altro che advertising istituzionale per il rafforzamento del brand nel momento di massimo appeal e conoscenza. E’ un po’ come (pur non essendoci gara!) il Just Do It! della Nike, la volontà di creare un punto di non ritorno nella storia del social network. Da questo il mio déjà vu, perché, pur essendo la piattaforma di condivisione generalista per eccellenza, segue le logiche di marketing come tutti i brand, più o meno tecnologici, più o meno storici, più o meno cool; senza essere assolutamente originale e innovativo, come vorrebbe essere Facebook, ma che io non vedo molto.
Riesce nel suo intento? Dipende, come si dice nel marketing. Se dovessi valutare sulla base delle visualizzazioni su youtube, il video risulta visto, a 7 giorni dalla pubblicazione, 1.150.552 volte; non male. Ma su quanti utenti ha fatto presa il messaggio ed ha rafforzato la convinzione ad essere parte del network o al più ad iscriversi? Certo non ho io i numeri, ma ho qualche dubbio, perché la sensazione che mi ha lasciato è di belle immagini, bella musica, un testo abbastanza poetico, ma scarso legame con cosa io ritengo essere Facebook ed il suo valore aggiunto.
Chairs are for people. And that is why chairs are like Facebook. Forse solo questa, fra tutte le altre frasi ad effetto, può mandare un messaggio, per quanto credo sia talmente forzata l’analogia, che ciascuno lo interpreterà come crede. Una sedia, un campanello, un ponte sono oggetti comuni della nostra vita, scontati, ma che ci aiutano quotidianamente a svolgere le nostre attività, più o meno orientate a creare interazione: Facebook può essere percepito come uno dei tanti strumenti che creano connessione ed interazione nella vita quotidiana. Oppure: Facebook è come una sedia e, se vuoi fare un gesto tanto comune quanto necessario per molte attività come sederti, devi averlo; un po’ basico, ma regge. Altrimenti si può cercare un significato più poetico e credere che, come le sedie sono studiate per le persone, sole o in compagnia (vedi le immagini della platea, il divano, le sedie del ristorante), anche Facebook nasce per le persone, per farle star bene da sole o nel network (e da qui forse il richiamo finale all’universo ed alla sensazione di essere soli, scacciata grazie anche al social network). Insomma, non Facebook come un’opzione, ma come un mezzo che è normale che ci sia (insieme a tutte le altre cose comuni alla razza umana) e che interagisce con noi in ogni momento, in un fluire naturale di informazioni.
Propendo per questo ultimo significato: in fondo, io stessa, non appassionata di Facebook, lo vedo come uno strumento in più, molto potente perché virale, messo a mia disposizione; quindi non un fine, non un mondo alternativo di socializzazione, ma un mezzo per dire gli stessi concetti di prima ma a più persone ed una bacheca virtuale di moltiplicazione dei contenuti e degli interlocutori.
Estrapolata questa frase, tutto il resto mi sembra alquanto forzato e, pur essendo una bella idea promuovere la condivisione fra persone per allontanare lo spettro della solitudine (cavolo però, che pessimismo!), piuttosto banale. Magari originale la casistica: una sedia, una pista da ballo, un ponte fatto con un tronco d’albero. Scontata la multietnicità.
Vediamo un po’ il testo (ovviamente in italiano, anche se su internet circola per lo più in inglese!):
Sedie. Le sedie sono fatte per sedersi e riposarsi. Chiunque può sedersi su una sedia e, se la sedia è grande, ci si può sedere insieme. E scherzare o raccontare o anche solo ascoltare. Le sedie sono fatte per le persone, per questo le sedie sono proprio come Facebook.
I campanelli, gli aeroplani, i ponti, sono tutte cose che le persone usano per incontrarsi e scambiarsi idee, condividere musica e molte altre cose. Le piste da ballo, la pallacanestro, una grande nazione. Una grande nazione fatta dalla gente, affinché la gente abbia un luogo da considerare come proprio.
L’universo, così immenso e oscuro, che ci domandiamo se siamo soli. Quindi, forse, il motivo per cui facciamo queste cose, è per ricordarci che non lo siamo.
Le sedie, i ponti, gli aeroplani sono cose tangibili, fatte dall’uomo, per condividere; Facebook come può per questo essere come le cose tangibili? L’astrazione mentale necessaria è oltre l’immediatezza tipica degli spot e soprattutto, pur arrivando, non rende il social network unico, perché nel virtuale la connessione tra gli individui è già il presupposto di base dello stesso internet, Google e in realtà di tutte le piattaforme.
Nello spot si vedono quasi esclusivamente attività off line: gente che balla, una partita di pallacanestro, gente che parla in una sala, ragazzini che giocano, una foresta bellissima e addirittura due ragazzi amoreggianti su un divano. E’ il tripudio del mondo 1.0, prima di internet, dei social media, degli avatar e dei “mi piace”. Difficile voler trasmettere ad un utente o potenziale tale che usare Facebook ti connetta a quel mondo e ti renda le stesse sensazioni: non solo reputo molto difficile godere di emozioni reali nel mondo virtuale, ma la dimensione, la modalità di fruizione ed i tempi sono completamente diversi.
E poi arriva la profonda immagine dell’universo stellato, quella manina che si tende e la voce melodiosa e seducente che ci parla di un universo immenso e oscuro dove potremmo esser soli, ma grazie a quel che facciamo (uso di Facebook compreso) non lo siamo. Ora, potrebbero anche andar bene la socialità e la convivialità che ci sono sia in una manifestazione di piazza che in una serie di post condivisi sul social network, ma scomodare l’intero creato con tutte le domande filosofiche che si tira dietro, non  è un pochino troppo?
Dai, salviamo Zuckerberg in calcio d’angolo: la scena del ristorante è incredibilmente democratica, perfetta per rappresentare i valori del brand. Al ristorante, unica tavolata di persone di tutte le età, piatti tutti uguali, stessa gestualità ed espressione (questa è una finezza che ho colto grazie alla analisi critica dello spot fatta dal sito ninjamarketing.it).
Non sono una creativa, ma condivido quanto ho letto nel commento allo spot di Lance Ulanoff: nei panni di Zuckerberg avrei voluto uno spot che parla del mondo virtuale umanizzandolo, mostrando che dietro l’interfaccia ci sono persone come noi che lavorano tutti i giorni per rendere la condivisione globale possibile. E magari avrei puntato sulla estrema democrazia (oggi tanto discussa) che rende Facebook un fenomeno di massa, per la massa, ma dove si possono trovare anche tante notizie interessanti, che magari nel mondo dell’editoria puramente commerciale sarebbero ignorate.
Tanti commenti che ho letto in giro, senza tanti fronzoli, dicono che semplicemente Facebook è il primo social network al mondo e quindi non ha bisogno di un messaggio preciso da trasmettere, ma solo di uno spot da associare al nome per far parlare di sé. Non sono d’accordo: oggi cerchiamo i brand non perché ci mancano cose, ma perché cerchiamo valore, un valore definito e coerente in cui identificarci.

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